La storia del bambino che è stato in braccio a Gesù L’esperienza pre-morte di Colton “Gesù ha detto agli angeli di cantare per me perché avevo tanta paura. Mi hanno fatto stare meglio” E’ il 2003. Il 4 luglio – festa nazionale negli Stati Uniti – una normale famiglia americana che vive nel Nebraska, a Imperial, paesino agricolo che ha appena “duemila anime e neanche un semaforo”, sta stipando di bagagli una Ford Expedition blu. I Burpo partono verso Nord per andare a trovare lo zio Steve, che vive con la famiglia a Sioux Falls, nel South Dakota (hanno appena avuto un bambino e vogliono farlo vedere ai parenti). L’auto blu imbocca la Highway 61. Alla guida c’è il capofamiglia Todd Burpo, accanto a lui la moglie Sonja e nel sedile posteriore il figlio Colton, di quattro anni, con la sorellina Cassie. Fanno rifornimento a una stazione di servizio nel paese dove nacque il celebre Buffalo Bill prima di affrontare immense distese di campi di granoturco. E’ la prima volta, in quattro mesi, che i Burpo si concedono qualche giorno di ferie dopo lo scioccante vicenda che hanno vissuto il 3 marzo di quell’anno. Il piccolo Colton quel giorno aveva cominciato ad avere un forte mal di pancia. Poi il vomito. Stava sempre peggio finché i medici fecero la loro diagnosi: appendice perforata. Fu operato d’urgenza a Greeley, in Colorado. Durante l’operazione la situazione sembrò precipitare: “lo stiamo perdendo! Lo stiamo perdendo!”. Il bambino era messo molto male e passò qualche minuto assai critico. Poi però si era ripreso. Per il babbo e la mamma era stata un’esperienza terribile. Lacrime e preghiere in gran quantità come sanno tutti coloro che son passati da questi drammi. Dunque, quattro mesi dopo, il 4 luglio, la macchina arriva a un incrocio. Il padre Todd si ricorda che girando a sinistra, a quel semaforo, si arriva al Great Plains Regional Medical Center, il luogo dove avevano vissuto la scioccante esperienza. Come per esorcizzare un brutto ricordo passato il padre dice scherzosamente al figlio: “Ehi, Colton, se svoltiamo qui possiamo tornare all’ospedale. Che ne dici, ci facciamo un salto?”. Il bambino fa capire che ne fa volentieri a meno. La madre sorridendo gli dice: “Te lo ricordi l’ospedale?”. Risposta pronta di Colton: “Certo, mamma, che me lo ricordo. È dove ho sentito cantare gli angeli”. Gli angeli? I genitori si guardano interdetti. Dopo un po’ indagano. Il bimbo racconta con naturalezza i particolari: “Papà, Gesù ha detto agli angeli di cantare per me perché avevo tanta paura. Mi hanno fatto stare meglio”. “Quindi”, domanda il padre all’uscita del fast food, “c’era anche Gesù?”. Il bimbo fece di sì con la testa “come se stesse confermando la cosa più banale del mondo, tipo una coccinella in cortile. ‘Sì, c’era Gesù’ ”. “E dov’era di preciso?”, domandò ancora il signor Burpo. Il figlio lo guardò dritto negli occhi e rispose: “Mi teneva in braccio”. I due genitori allibiti pensano che abbia fatto un sogno nel periodo di incoscienza. Ma poi vacillano quando Colton aggiunge: “Sì. Quando ero con Gesù tu stavi pregando e la mamma era al telefono”. Alla richiesta di capire come fa lui, che in quei minuti era in sala operatoria in stato di incoscienza, a sapere cosa stavano facendo i genitori, il bambino risponde tranquillamente: “Perché vi vedevo. Sono salito su in alto, fuori dal mio corpo, poi ho guardato giù e ho visto il dottore che mi stava aggiustando. E ho visto te e la mamma. Tu stavi in una stanzetta da sola e pregavi; la mamma era da un’altra parte, stava pregando e parlava al telefono”. Era tutto vero. Così come era vero che la mamma di Colton aveva perduto una figlia durante una gravidanza precedente. Colton, che era nato dopo, non l’aveva mai saputo, ma quella sorellina lui l’aveva incontrata in cielo e lei gli aveva spiegato tutto. Sconvolgendo i genitori: “Non preoccuparti, mamma. La sorellina sta bene. L’ha adottata Dio”. Di lei il ragazzo dice: “non la finiva più di abbracciarmi”. Comincia così, con la tipica semplicità dei bambini che raccontano cose eccezionali come fossero normali, una storia formidabile che poi il padre ha raccontato in un libro scritto con Lynn Vincent, “Heaven is for Real” (tradotto dalla Rizzoli col titolo “Il Paradiso per davvero”). E’ da questo libro – che negli Stati Uniti è stato un best-seller – che vengono queste notizie. All’uscita, nel 2010, conquistò la prima posizione nella top ten del “New York Times” e subito dopo dalla storia di Colton è stato tratto un film che è appena arrivato in Italia (dal 10 luglio), sempre col titolo “Il Paradiso per davvero”. Il film, col marchio Tristar, è diretto da Randall Wallace (lo sceneggiatore di Braveheart) e negli Stati Uniti ha avuto un grande successo. Può anche essere che da noi sia un flop perché gli americani hanno una sensibilità religiosa molto più profonda di quella europea (il caso americano smentisce il paradigma della sociologia moderna secondo cui la religiosità declinerebbe quanto più aumenta la modernizzazione). La storia (vera) del piccolo Colton peraltro è una tipica esperienza di pre-morte, cioè un fenomeno che l’editoria e la cinematografia americana in questi anni hanno scoperto e raccontato molto. Anche perché i maggiori istituti di sondaggio Usa hanno scoperto che si tratta di un’esperienza estremamente diffusa. UN FENOMENO ENORME Ne ho parlato nel mio ultimo libro, “Tornati dall’Aldilà”, perché negli ultimi quindici anni la stessa medicina ha studiato approfonditamente questi fenomeni scoprendo che non sono affatto da considerarsi allucinazioni, ma sono esperienze reali, vissute da persone in stato di morte clinica. Gli studiosi (io ho citato specialmente i risultati di un’équipe olandese) si sono trovati a dover constatare che la coscienza (anzi una coscienza allargata, più capace di capire) continua a vivere fuori dal corpo anche dopo che le funzioni vitali del corpo e del cervello sono cessate. E’ quella che – con linguaggio giornalistico – ho chiamato “la prova scientifica dell’esistenza dell’anima”. Questi stessi studiosi, con le loro analisi scientifiche, concludono che non si possono spiegare queste esperienze se non ricorrendo alla trascendenza. Mi sono imbattuto personalmente in questo mistero con la vicenda di mia figlia e mi sono reso conto, dopo aver pubblicato il mio libro, che tanto grande è l’interesse popolare, della gente comune, quanto impossibile è in Italia una discussione sui giornali (o in altre sedi) fra intellettuali e studiosi, su questi fenomeni. C’è letteralmente paura di guardare la realtà. La nostra è la cultura dello struzzo, quello che mette la testa dentro la sabbia per non vedere qualcosa che non vuole vedere. C’è come una censura sull’Aldilà e – in fondo – sul nostro destino eterno: “Tutto cospira a tacere di noi un po’ come si tace un’onta forse un po’ come si tace una speranza ineffabile” (Rilke). Ma paradossalmente la censura sull’Aldilà (e specialmente sull’Inferno) c’è anche in un certo mondo cattolico che ha adottato “la sociologia come criterio principale e determinante del pensiero teologico e dell’azione pastorale” (Paolo VI). Così accade che, paradossalmente, la scienza è arrivata a constatare il soprannaturale, in questi fenomeni, prima del mondo ecclesiastico e teologico. Eppure la Vita oltre la vita sarebbe l’unica cosa davvero importante. La sola degna di meditazione. E’ il grande conforto nel dolore della vita. E’ stata la grande meta dei santi. Forse bisogna aver assaporato proprio il dolore della vita e della morte per capire. Per avere questo sguardo e questa saggezza. Per lasciarsi consolare dalla Realtà di quell’abbraccio di felicità. Eric Clapton, alla tragica morte del suo bimbo, scrisse una canzone struggente, “Tears in Heaven”, dove fra l’altro diceva: “Oltre la porta c’è pace ne sono sicuro e lo so non ci saranno più lacrime in Paradiso”. Antonio Socci, da “Libero”, 13 luglio 2014
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